giovedì 6 marzo 2014

CINEMA - LA GRANDE BELLEZZA INCOMPRESA E FATTA A PEZZI DALLA TV



Avevamo visto La Grande Bellezza qualche tempo fa al cinema. Il film, nella sua studiata lentezza, ci affascinò molto, ci piacque. Ci piacquero le immagini di una Roma felliniana fra la notte e l’alba, le parole dissacranti e del protagonista Jep Garbandella, la straordinaria bravura degli attori.

Poi il film ha vinto l’Oscar ed è diventato qualcosa che tutti devono vedere e conoscere e così è stato trasmesso in tv, dalla tv del Gruppo della sua stessa casa di produzione, la Medusa. Il risultato è che "il padre ha ucciso la sua stessa creatura", facendola a pezzi con la mannaia delle pubblicità e allungandone i tempi fino ad orari eccessivi. Se fra i quasi nove milioni di persone che hanno visto su Canale 5 La Grande Bellezza si potessero contare coloro che si sono addormentati sul divano prima del finale i numeri sarebbero sorprendenti e la colpa non è certo di Sorrentino e Servillo.

E non stupiscono i giudizi approssimati, troppo duri o troppo morbidi, di chi ama o di chi ha odiato il film. Giudizi viziati da una visione approssimativa e forzata dalla vittoria di un Oscar che non rende l’opera migliore o peggiore di ciò che già era. Soprattutto non rende il film ciò che non è: non è un’opera sulla città di Roma, un tributo alla Capitale, un auspicio alla rinascita culturale ed economica del Paese.

Ciò che realmente è, e ciò che realmente si vede nel film, ce lo ricordano Stefano Solinas sul Giornale e Marco Travaglio su Il Fatto: quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.

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